FINO AL 31.X.2010 LUCA TREVISANI FAVIGNANA (TP), EX FLORIO

Il lavoro di Luca Trevisani (Verona, 1979; vive a Berlino) è un progetto incompiuto di archeologia del presente. Le sue opere, però, non sono decantazioni di rimossi e rifiuti contemporanei, né assemblaggi risignificati volti a smentire misticismi e costrutti ideologici della civiltà in cui le cose si consumano. Sono invece aggregati eterogenei di materia emancipata dal peso che fa dell'oggetto uno strumento, un serbatoio di significati e sovrastrutture culturali, un cadavere semiotico tenuto in vita da umane prospettive funzionali.
Così, se qualcosa è rinvenuto, non è a seguito di abbandono o esaurimento. Perché non è del reperto in sé che si serve l'artista, ma del corpo solido inteso nella sua componente prelogica, nella sua identità fluida al di là di ogni stima cartesiana di consistenza. Implode la categoria del dismesso. Svanisce in retorica l'argomento del realismo.
Se è ancora possibile generare un'immagine efficace, è a costo della sua dis-ontologizzazione. Se di un oggetto è possibile fare scultura, è assumendone l'incollocabilità nel sistema razionale del linguaggio.
All'interno dell’ex stabilimento Florio di Favignana - antica tonnara dismessa, oggi trasformata in museo - il tempo presente indicativo ha il tono dell'azzardo: il relitto di un progetto industriale di inizio Novecento, potente e vetusto, racconta le atmosfere di una contemporaneità in cui l'incertezza sopravanza un’ormai sopita sicurezza, fondata sulla ragione e sul perseguimento dell'obiettivo.
La Fondazione Sambuca segna qui una nuova tappa di un ciclo di residenze d’artista, che ha prima visto protagonista il Laboratorio Saccardi e che ha poi coinvolto Trevisani, già vincitore del Premio Furla (2007) e del Premio New York (2009). A cura di Paolo Falcone, >100°C verte attorno al tema dell'acqua e della fluidità, in stretta connessione con il genius loci, non solo in termini di prelievo dei materiali. Il titolo stesso fa riferimento alla temperatura di ebollizione dell’acqua, dunque all’inizio della sua sparizione.
Le forme alludono forse a un'ancora, a un boomerang, a una vela: strumenti efficienti in cerca di equilibri dinamici con il vento, le onde, la sabbia. Elementi tubolari divelti, frammenti di legno, forme astratte e loro negativi disegnati nel gesso, calchi di vuoti effimeri praticati nell'informità della sabbia come fossero antiche fusioni di bronzo.
Scrive Helga Marsala nel testo critico che correda la mostra: "La scultura, allora, come corpo vivo. Il suo modo di respirare è il suo modo di inciampare, inevitabilmente, nella propria mutevolezza imperfetta, nel proprio tendere verso un azzeramento che è andare incontro all’informe, al temporaneo, all’istantaneo”. In questa nullificazione assurta ad archetipo si consuma l'ossimoro di un'immagine che si ritrae all'imperativo etico dell'affermare. Rappresenta una storia non lineare e non progressiva, il tempo di un'esperienza del disastro, per dirla con le parole di Maurice Blanchot: "Preoccupazione per l'infimo, sovranità dell'accidentale. Il negativo non viene dopo l'affermazione (affermazione negata), ma è in rapporto con ciò che vi è di più antico”
Nel lavoro di Luca Trevisani si scorge il senso di un’unica, delirante prospettiva. Quella di un presente senza compimento possibile.
Fonte: exibart.com
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